STRUMENTI CULTURALI

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Elenchi di funzionari e cariche pubbliche in «MILANO»

Denominazione:
Milano
Breve Abstract:
V. De Vit, Il Lago Maggiore..., Vol. 01 p. 1 - Cap. 45 - Dei tre nipoti di Matteo Visconti il Magno
Abstract:
CAPO XLV
Dei tre nipoti di Matteo il Magno,
cioè Matteo II, Bernabò e Galeazzo II, che si dividono lo stato di Milano,
da ultimo nuovamente riunito nella persona di Giangaleazzo.


Alla morte dell’arcivescovo Visconti (1354) il Consiglio generale di Milano riconobbe tosto per suoi signori i tre summentovati figliuoli di Stefano, fratello di Matteo il Magno.
Tenuta pertanto solenne adunanza il giorno 11 di ottobre delegò quale suo sindaco e procuratore Boschino Mantegazza a metterli in possesso della signoria1 e a dividere tra essi lo stato di Milano.
A Matteo II il primogenito toccarono Lodi, Piacenza, Parma, Bologna, Bobbio ed altre terre oltre Po; al secondogenito, Bernabò, Bergamo, Brescia, Cremona ed altre terre oltre l’Adda; a Galeazzo II finalmente Como, Novara, Vercelli, Alba e tutte le terre del Piemonte con Alessandria e Tortona. Milano e Genova, che non si poterono comodamente dividere, restarono soggette egualmente a tutti e tre.
Nota molto opportunamente il Giulini (l.c. P. II, pag. 5 e seg.), che rispetto alle proprietà private e feudali avvennero nella divisione dei guai coll’autorità ecclesiastica. Poiché fino a tanto che le due supreme dignità ecclesiastica e secolare furono unite nella stessa persona dell’arcivescovo anche le cose che appartenevano all`una e all’altra restarono assai confuse; le quali poi dovendosi separare colla elezione di nuovi principi e di un nuovo arcivescovo, le cose che ne andarono a male furono le possessioni e i diritti di questo secondo. Ho già avvertito di sopra e qui importa di ripetere che fu per questa cagione, che il nostro Vergante posseduto sin qui dagli arcivescovi di Milano, ma amministrato allora e poi dai Visconti col titolo di conservatori, non ebbe più ad uscire da queste mani.2
Poco tempo godette Matteo del suo principato, perocché in causa delle sue scostumatezze la morte, che si vuole da taluno anche accelerata dai fratelli, il 26 settembre 1355 pose fine improvvisamente al pessimo suo governo: e così Bernabò e Galeazzo se ne divisero la porzione. Lodi, Bologna e Parma coi castelli di Melegnano, Pandino e Vaprio toccarono al primo: il secondo ebbe Piacenza e Bobbio coi castelli di Monza, di Abiate e di Vigevano. Milano e Genova rimasero come prima indivise.
Ma né anco il governo di questi due fu migliore dell`altro: esso non ci offre che una serie di barbarie e di oppressioni. Già sino dal principio sorse contro di essi una guerra assai sanguinosa. Gli Estensi, i Gonzaga e il Marchese di Monferrato entrarono ben presto in campo a danno dei Visconti (1356). Tra le città che loro si ribellarono fu anche Novara, che aperse le porte al Marchese, grandemente favorito in questa impresa dai Tornielli, famiglia potentissima in questi tempi. La guerra fu continuata per altri due anni con immense stragi e guasti incalcolabili d’ambe le parti, e non si conchiuse la pace che il giorno otto di giugno del 1358.3
Narrano alcuni che Galeazzo ben conoscendo per esperienza quanto fossero pericolose in tempo di guerra le tante fortezze e castelli, ch`erano qua e colà dispersi poi suoi stati, facesse distruggere e smantellare in modo particolare quelli posseduti dai nobili del partito Guelfo per togliere così loro il mezzo di rifuggiarvisi e di turbare nuovamente la pace. Tra le distrutte viene annoverata anche la rocca di Arona.
Poche altre notizie trovo degne di memoria relative ai luoghi del nostro Lago durante il governo di Bernabò e di Galeazzo, se si eccettui la riforma, che questi intraprese degli statuti di Locarno l’anno 1363, a fine di porre un argine agli abusi, che si erano introdotti in quel vicariato. Vi spedì a tale scopo in qualità di suo vicario Matteo de Piscia, capitano del Lago Maggiore.4
Ne si dee tacere che sotto di essi Milano e il suo contado e i luoghi pure del nostro Lago furono funestati dal flagello della peste, che infierì segnatamente nell’anno 1361, e pei quale perirono un ben settantasette mila persone nella città ed altrettante nella campagna, e da quello della carestia cagionato da un numero sterminato di cavallette, che devastarono l`anno 1364 tutto il territorio Novarese, in ispecie l’Ossola e la Valle Intrasca, espressamente ricordate dall’Azario presso il Giulini (I.c. pag. 146). Altre consimili pestilenze infierirono negli anni 1373 e 1378, seguite anch`esse da lacrimevole carestia (ivi, pag. 241 e 255).
Frattanto Galeazzo già logoro di salute e stanco del governo pensò l’anno 1375 di emancipare il figlio Giangaleazzo,5 e di assegnarli il governo di Novara, Vercelli e di altre città e da ultimo tutta intera l’amministrazione del suo stato con decreto del 19 aprile 1378, ritenendo per sé soltanto il supremo dominio; ma anche questo per poco, giacchè il giorno 4 di agosto di questo medesimo anno, fu colpito dalla morte in Pavia, nell`ancor fresca età di anni cinquantanove, e quivi sepolto nella chiesa di S. Agostino, non compianto da alcuno; perché era divenuto oggetto dell`odio universale per le sue crudeltà, ed enormi gravezze, onde aveva oppressi i suoi sudditi. Ma qual si fosse, tuttavia non è a tacersi ch`egli favorì molto le scienze, le arti e i letterati, tra i quali in modo particolare il Petrarca, e che a lui è dovuta la fondazione dell`Università di Pavia, la quale ottenne, che fosse anche approvata dall’Imperatore Carlo IV con suo decreto del 13 aprile 1361.
Giangaleazzo suo figlio, che gli successe, era una finissima volpe, e come si vide padrone assoluto degli stati del padre, pensò tosto al modo d’ingoiarsi quelli pure dello zio. Si studiò quindi di passare appo tutti per imbecille e pusillanime, mostrando anche di temere le insidie dello stesso e dei suoi cugini, sinché giunse a capo di ordire quell’ardita congiura, che il giorno 6 maggio 1385 gli diede in mano Bernabò con tutta la sua famiglia. Egli così divenne signore di un amplissimo stato, che gli venne poco dopo riconosciuto anche dal Consiglio generale della città.
Bernabò arrestato fu pochi giorni dopo condotto nel castello di Trezzo e là fu rinchiuso nella torre, dove ebbe ancora alcuni mesi di tempo per pensare ai casi suoi e far penitenza dei suoi tanti e gravi delitti. Morì avvelenato il 19 dicembre dello stesso anno (1385) in età di anni sessanta sei. Ecco come descrive il Giulini (l.c. p. 386) gli ultimi istanti della sua vita: «Allorchè Bernabò si avvide di aver preso il veleno, subito proruppe in un grandissimo pianto; ricevette i santi sagramenti con molta divozione, e con molte lagrime e percuotendosi il petto finché ebbe fiato, non cessò mai di ripetere: “Cor contritum et humiliatum, Deus, non despicies”», e così dicendo spirò.




1 Ho già di sopra riferito I`accoglienza fatta dall’arcivescovo Giovanni al Petrarca, il quale fu anche da lui mandato suo ambasciatore alla repubblica di Venezia. Ora scrive il Giulini (I.c. pag. 179) che dopo il ritorno del Petrarca, essendo venuto a morte l`arcivescovo ed essendo stati dichiarati Signori di Milano i suoi tre nipoti e per la solenne funzione nella quale i tre principi presero il possesso della signoria di Milano, fu data al Petrarca I’incombenza di ragionare al pubblico». Il Giulini non cita in conferma di quanto qui asserisce alcuna autorità, per cui è lecito dubitare in questo luogo della sua esattezza. Ai nostri giorni in un codice della biblioteca palatina di Vienna venne scoperta un’arringa fatta dal Petrarca in morte dell`arcivescovo, la quale fu pubblicata da Atilio Hortis in Trieste l’anno 1879 tra i varii Scritti inediti di esso con questo titolo: Arringa facta Mediolani in millesimo 1354 die VII octobris de morte domini archiepiscopi Mediolanensis, qui fuit dominus quasi totius Lombardiae, qui obiit die quinta dicti mensis, per dominum Franciscum Petrarcham poetam lareatum. Si trova alla pag. 335-340 degli Scritti suddetti. A meno dunque che il Petrarca non abbia fatto un’altra arringa nell’occasione della presa di possesso dei tre principi, la qual cosa d`altronde non ci è nota, converrà dire che non in questa circostanza, ma sì in quella della morte dell`arcivescovo abbia il Petrarca tenuto al pubblico quel suo discorso.

2 Vedi sopra pag. 396 e 397 nelle note. Tuttavia è anche a dire che l`arcivescovo ne fu ancora considerato per qualche tempo quale signore; poiché abbiamo veduto da esso approvati gli statuti del Vergante l`anno 1393, nei quali inoltre più volte si fa menzione di lui. Bensì è vero, che poco appresso fu da loro perduto per sempre, quando Gian Galeazzo ottenne che fosse ripristinato il contado di Angera.

3 Scrive il Giulini (l.c. pag. 62): «Col marchese di Monferrato, il quale aveva occupate le città di Asti, Alba e Novara, né si risentiva di restituirle, non fu possibile di accordare cosa alcuna; onde l`affare fu rimesso di comun consenso delle parti alla decisione dell’Imperatore. La sentenza data in dicembre dal Pelagravio o meglio Burgravio ministro imperiale fu che Alba e Novara venissero restituite a Galeazzo Visconte, con che egli cedesse la terra di Novi, che possedeva». Così il Giulini, che cita a questo proposito la Cronaca dell`Azario alla pag. 367. Ma anche Azario, sebbene scrittore contemporaneo, non è sempre esente da errori (si vegga come il Giulini discorra di lui su questo proposito alla pag. 157 del l.c.) ; poiché sappiamo che Galeazzo si trovava già in Novara il 18 e 19 giugno di quest`anno stesso (1358), e che alla presenza di lui Francesco Petrarca tenne un`arringa al popolo di questa città per persuaderlo a starsene volentieri sotto quel principe. Fu pubblicata anche questa dal medesimo Hortis alla pag. 341-358 degli Scritti citati, tratta similmente dal codice suddetto di Vienna col seguente titolo: Arengua facta per dominum Franciscum Petrarcham poetani laureatum in civitate Novarie coram populo eiusdem civitatis et presente magnifico domino Galeaz de Vicecomitibus de Mediolano, dum dicta civitas fuisset rebellis ipsi domino reducta ad obedientiam dicti domini Galeaz. MCCCLVI XVIIII lunii - Avverte l’Hortis alla pag. 166 in nota, che questa data è sbagliata e deve correggersi l`anno, che fu il 1358 in vece del 1356. Questa arringa fu recentemente tradotta e corredata di annotazioni dal ch. avv. Carlo Negroni, e pubblicata in Novara I’anno 1876 in 8.° col titolo: Francesco Petrarca a Novara e la sua arringa ai Novaresi.

4 Veggasi ciò che in proposito ne scrive il Nessi nelle sullodate Memorie storiche di Locarno pag. 82 e seg.

5 Tra i varii suoi titoli Giangaleazzo ostenta anche quello di conte di Virtù. Eccone l`origine. Galeazzo suo padre per amicarsi il re di Francia Giovanni, gli chiese in moglie pel figlio suo primogenito la di lui figlia Isabella, alla quale il padre aveva assegnato in dote il contado di Vertus nella Sciampagna. Furono celebrate queste nozze l’anno 1360, e il giovane sposo prese per tal cagione il titolo di Conte di Vertus, o, come in Italia dicevasi, Conte di Virtù, titolo, ch’egli ebbe assai caro. – Essendo poi alquanti anni dopo rimasto vedovo prese in seconde nozze per moglie una figlia dello stesso suo zio Bernabò, chiamata Caterina, mediante dispensa concedutali da Urbano VI l`anno 1380.




Accedere qui al quadro generale dei volumi dell`opera devitiana Il Lago Maggiore, Stresa e le Isole Borromee..., Alberghetti, Prato 1875-1880



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Autore:
   [Vincenzo De Vit]
A Cura di:
   [Carlo Alessandro Pisoni]

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