La Tomba Bonera è certamente una tra le più complesse, per ideazione e apparato architettonico, condiviso per cospicuità forse solo con quella del pittore-decoratore Davide Pozzetti, entrambe allineate sul fondo del muro perimetrale cimiteriale antico del San Giorgio di Runo, e anzi quella Bonera proprio a costituirne l’angolo a valle. Complessa, e interessante: ché se per la tomba Pozzetti l’interesse risiede innanzitutto nella scenografia (quella bella abside con parete e catino affrescati, il busto in bronzo del giovane, l’imponente trabeazione classicheggiante del fronte), altri sono i motivi di discorrere dei sepolcri Bonera. Piace avanti tutto notare la cospicuità di alcuni tra i personaggi che negli avelli dormono (Leopoldo Bonera e Giuseppe Bonera, ma anche, riteniamo, Luigi Bonera e altri esponenti delle famiglie imparentate: Casnedi, Rossi, Cucchetti); ma non solo. Pensiamo di non andare troppo distanti dal vero, congiungendo alle virtù civili di Leopoldo Bonera anche non poche simpatie massoniche; lo dimostrerebbero, oltre, alla ribadita obbedienza all’insegnamento mazziniano e garibaldino, anche quella discreta (ma non poi troppo) ostentazione dei simboli (l’occhio nella piramide; il triangolo, la squadra e il compasso; il teschio e le tibie incrociate) che sono tipiche delle devozione di loggia. Ma non finisce qui l’interesse per la tomba Bonera. Alla cripta non s’entra per una porta anonima, ma piuttosto per una porticina su cui una clessidra indica lo scorrer del tempo: ammonisce, sopra, un motto risoluto: «QUI SI RIPOSA», nella piena coscienza di aver compiuto il proprio dovere di uomini e di cittadini. Tutto infatti sembra ruotare intorno a quel busto di Giuseppe Bonera, defunto «il 6 gennaio 1890 / nell’età di 83 anni» ed effigiato nel marmo in centro al complesso funebre.
Busto e colonna che lo sorregge, a’ piedi del quale sta un delicato cuscino marmoreo, tutto cesellato di pizzi e trine, recante poi il nome e le fattezze, nella fotografia ceramica, di Rosa Bonera nata Casnedi.
E ancora, se varrebbe da sola la pena di un inventario la non secondaria presenza delle lapidi, nel funebre recinto, di Maddalena Casnedi ved. Rossi (decessa il 17 maggio 1851), e dei coniugi Domenica Qucchetti (sic, così la lapide infissa nel muro, per una povera giovane morta il 5 maggio 1802 a soli ventiquattro anni) e Luigi Bonera, che invece le sopravvisse sino al 1854, morendo settantacinquenne, è piuttosto, a commuovere, una semplice targhetta di metallo, neppure troppo antica. Con le proprie ridotte dimensioni (quel tanto che bastava per farla viaggiare comodamente in un pacchetto postale), con un dimesso stile, senza orpelli, abbellimenti o incisioni di sorta, e perfino con un tentennamento nell’italiano (“departita” anziché “dipartita”), dice comunque l’affetto immutabile e immutato anche dopo 17 anni di lontananza tra due sorelle. È la targhetta che Armida Rossi, emigrata a Crows Landings (California) inviò il 24 ottobre 1924 perché fosse collocata sulla tomba della sorella Rosina, morta di parto.
Le tombe di famiglia sono anche questo.