Nel corso del XV secolo molte cose cambiarono nel modo di fare la guerra: l’introduzione di nuove tecniche militari offensive e difensive, la creazione di forze armate stanziali a protezione del territorio, la diffusione e l’evoluzione tecnica delle armi da fuoco, concorsero gradualmente ad affermare tra i contemporanei la convinzione che le difese permanenti - come castelli, rocche, torri, murate -, eredità di una tradizione ormai secolare di presidio delle terre e delle città che affondava le proprie radici nel pieno medioevo, da sole non fossero più sufficienti ad assicurare un’efficace protezione del territorio e dei confini dello Stato. Tale convinzione, ulteriormente rafforzata dall’analisi degli eventi politico-militari della crisi dell’ultimo decennio del Quattrocento, sarebbe stata esplicitata di lì a poco nelle parole di Niccolò Machiavelli che, nel secondo libro dei
Discorsi, faceva provocatoriamente osservare come le fortezze fossero fondamentalmente inutili, anzi addirittura dannose perché causa di malcontento delle popolazioni verso l’autorità dello Stato; esse infatti richiedevano, anche in tempo di pace, l’impiego di cospicui e continui investimenti di denaro per la loro conservazione e manutenzione, necessitavano di guarnigioni di notevole consistenza numerica per la loro custodia - elementi questi che si traducevano inevitabilmente in un aggravio di spesa e, di conseguenza, in un maggiore onere fiscale a carico delle popolazioni -, eppure non riuscivano a garantire un’adeguata protezione del territorio e spesso venivano facilmente espugnate. Malgrado ciò le strutture difensive permanenti non persero improvvisamente di importanza, ma conservarono ancora durante la seconda metà del Quattrocento un ruolo rilevante nell’ambito degli schemi difensivi delle potenze dell’epoca, in un contesto però di generale ripensamento in merito agli aspetti organizzativi (con la creazione, ad esempio, di strutture e uffici per l’ispezione e il controllo delle fortezze, che oltre agli ovvi compiti di accertamento della diligenza dei castellani e della presenza di sufficienti scorte alimentari e di munizioni, si occupassero anche di aggiornare le difese alle nuove tecniche di sorveglianza, di verificare il livello qualitativo delle opere difensive, di curare un’adeguata dotazione di artiglierie), strutturali (con l’esecuzione di interventi sulle opere difensive, sia preesistenti sia di nuova costruzione, in linea con i più recenti sviluppi tecnici e seguendo i canoni della cosiddetta architettura militare di transizione) e di distribuzione territoriale dei castelli e delle fortificazioni (mettendo in atto criteri selettivi riguardo la scelta delle fortificazioni che dovevano essere mantenute e rafforzate, con l’abbandono o la demolizione delle opere ritenute inutili o addirittura pericolose per la difesa dello Stato). Castelli e fortificazioni intesi non più come singole strutture indipendenti e non correlate tra loro, ma come tasselli di un più vasto mosaico, di un piano generale e complessivo di difesa del territorio dello Stato regionale basato essenzialmente su considerazioni e criteri di pura strategia militare.
Nel Ducato di Milano l’applicazione di tali orientamenti selettivi riguardo le strutture militari di presidio del territorio si tradusse in un’imponente riorganizzazione dell’intero apparato difensivo dello Stato: da un lato, a seguito degli obblighi stabiliti nei capitoli della pace di Lodi del 1454, ma anche per alleggerire le casse dello Stato da un pesante onere non più giustificato in tempo di pace, si avviò una politica di smantellamento di parte delle opere difensive costruite durante gli anni di guerra, soprattutto lungo i confini con il territorio veneziano, e di riduzione delle guarnigioni a custodia dei castelli nei quali veniva mantenuto un presidio; dall’altro, si procedeva a impostare un ambizioso piano di razionalizzazione delle strutture difensive ai confini e nelle città del Ducato, con la realizzazione di un reticolo di fortezze derivante dall’integrazione di nuove strutture in aggiunta a quelle esistenti, per le quali furono avviati massicci interventi di ristrutturazione e di restauro.
Anche sul territorio novarese si videro gli effetti di questo piano: fu attuata una riduzione degli organici in servizio all’interno dei castelli e delle rocche della città e del distretto (la guarnigione del castello di Novara passò, ad esempio, da 25 a 15 unità); fu perseguita la dismissione di alcune strutture fortificate sul territorio tramite una serie di infeudazioni di terre incastellate, messa in atto però non senza incertezze e battute d’arresto, negli anni ’60 e ’70 del Quattrocento; fu incoraggiata e sostenuta la volontà di alcuni feudatari e comunità di eseguire opere di fortificazione attorno ad alcuni centri abitati nel contado novarese, considerato come non abbastanza provvisto di opere di questo tipo, in cambio di promesse di vigilanza sul territorio e di giuramenti di perenne fedeltà agli Sforza; fu decisa infine la demolizione della cittadella, ormai inutile, se non addirittura fonte di pericolo, ai fini della difesa della città, per concentrare le attenzioni e le risorse sulla struttura difensiva del castello. La cittadella infatti, presidiata da una guarnigione non abbastanza numerosa e sottoposta a una serie di recenti interventi di restauro che, anziché rafforzarne le difese, ne avevano invece pregiudicato la stabilità delle mura, destava particolari preoccupazioni; gli stessi ufficiali del principe sostenevano senza esitazione la tesi che in caso di attacco la cittadella, tutt’altro che inespugnabile, avrebbe costituito una spina nel fianco delle difese cittadine, causando, con la sua caduta, la resa inevitabile dell’intera città. Negli anni di governo di Francesco Sforza però il problema delle fortificazioni della città di Novara fu affrontato soltanto marginalmente: nel 1452 e poi ancora nel 1456 e nel 1458 si eseguirono alcuni lavori di riparazione nel castello, nella cittadella e alle mura cittadine, ma badando soprattutto a contenere la spesa. Così il castello continuava a versare in condizioni precarie: era privo di bombarde per la sua difesa, tanto che il castellano si vedeva costretto a ricordare al duca che «bixogna in offexa et conservatione de questa vostra rocha zo si è de quatro bombardele cum li soy zepe, falconi et prede»; mentre nell’ala sud degli edifici del castello, dove erano alloggiate le guardie della guarnigione, «el ge piove dove dormeno e dove fano focho, e si gli tira l’ayro da ogni canto come fosseno in campagna».
Fu soprattutto il nuovo duca Galeazzo Maria, figlio di Francesco Sforza, a imprimere una decisa accelerazione nella politica di riorganizzazione delle difese dello Stato sforzesco. In ambito novarese, sua fu l’iniziativa di costruzione del castello e residenza estiva ducale di Galliate, così come sua fu la decisione di procedere all’abbattimento delle strutture della vecchia cittadella viscontea che sorgeva a sud-est della porta cittadina di Santa Maria e di rafforzare il castello, inglobando le strutture preesistenti - frutto della stratificazione di più fasi costruttive, a partire dalla seconda metà del Duecento, fino ai successivi interventi di ricostruzione effettuati durante la dominazione viscontea - entro una possente muraglia a pianta quadrata, terminante negli angoli con quattro ampie torri angolari sporgenti, anch’esse a base quadrata e per questo denominate
quadre.
Il carteggio sforzesco, conservato presso l’Archivio di Stato di Milano, permette di seguire il succedersi degli eventi da una prospettiva privilegiata e di ascoltare dalla viva voce di chi partecipò personalmente a quelle vicende il maturare di ogni decisione, il manifestarsi di ogni problema, l’insorgere di dubbi ed esitazioni, offrendo uno squarcio tanto vivace e diretto, quanto preciso e documentato sulla progressione dei lavori nel castello: l’avvio dell’impresa risale al 5 marzo 1468 quando il duca diede incarico al referendario Giacomo Pecchi di procedere alla demolizione della cittadella e di iniziare le opere al castello. Due mesi più tardi, il 4 maggio, lo stesso referendario riferiva al duca che il capitano Lanfranco Garimberti aveva consegnato la cittadella nelle sue mani e che erano iniziati i primi lavori di demolizione e di spianamento delle difese, lavori di smantellamento che si sarebbero però protratti per molti anni, a causa di un lungo contenzioso fra il referendario e gli acquirenti dei lotti di terreno in cui era stata suddivisa l’area della fortificazione.
Nel frattempo il Pecchi, in una sua lettera del 7 maggio, informava il duca di avere iniziato a raccogliere e depositare all’interno del castello «prede, calcine, sabloni et altre cose necessarie per fortifficare questa rocha». Per una simile opera però erano necessarie cospicue somme di denaro, che il duca, preoccupato del bilancio dello Stato, non era propenso a stanziare: egli decise dunque che «li denari andavano per pagare el capitano d’essa nostra cittadella si spendano in le fortificationi de dicta nostra roca», una somma però del tutto insufficiente a sostenere anche soltanto in minima parte i costi di un’opera tanto ambiziosa. Nonostante tutto nel mese di giugno i preparativi erano ormai a buon punto e il referendario, dicendosi pronto per la parte di sua competenza all’avvio delle opere, chiedeva che fosse inviato a Novara l’ingegnere ducale Bartolomeo Gadio da Cremona, oltre a Serafino da Lodi già a Novara come sovrintendente alle attività del cantiere. Finalmente il 21 luglio ebbero inizio i lavori. In una lettera del 22 luglio il Pecchi comunicava al duca, non senza una punta di orgoglioso compiacimento: «heri, che fu .xxj. del presente [mese] incomenzassimo mediante il divino adiuto de mettere parte dil fondamento di questa forteza s’ha a fare, et gli detemo principio cum una messa de Spirito Sancto et cum una bella processione implorando lo eterno Dio sia a conservatione dil Stato di vostra illustrissima signoria, et già n’è facto braza .cviij. de fondamento cum li suoy contraforti et cento octo altra braza de cava serà facto hogi et se farà martedì o melcordì lo fondamento cum li suoy contraforti».
I lavori procedettero per tutto quell’anno, finché la stagione lo permise, nonostante il manifestarsi dei primi problemi di approvvigionamento dei materiali; come la mancata consegna in agosto di una fornitura di calce per il cantiere da parte di Taddeo Ghiringhelli e del castellano di Arona Giuliano da Sezzadio, entrambi uomini dei Borromeo. Quando però, dopo la pausa invernale, si cercò di riprendere l’attività edilizia i problemi si fecero decisamente più seri. Fin dall’estate precedente infatti si era diffusa la peste in tutto il Ducato e anche nel territorio novarese: una pestilenza che imperversò poi fino all’autunno del 1469. L’epidemia e le difficoltà, a essa collegate, di reperimento degli uomini e dei materiali indispensabili per il proseguimento delle opere di costruzione, unite ai già accennati problemi finanziari, bloccarono a lungo i lavori. Nel dicembre 1469 il duca cercò di riavviare il cantiere, dando ordine di raccogliere informazioni per capire «che spesa andaria in fare finire questo castello et in quanto tempo si porà dare finito secundo il designo principiato»; malgrado la presenza a Novara dell’ingegnere ducale Maffeo da Como, però, i lavori non furono ripresi e il cantiere rimase fermo.
Dopo qualche anno, nel febbraio del 1472, Galeazzo Maria ordinò l’esecuzione di alcuni lavori di ristrutturazione negli appartamenti ducali presenti all’interno del castello di Novara, essendo egli intenzionato a soggiornare per qualche tempo in città durante la successiva primavera. Gli interventi di ristrutturazione furono coordinati dall’ingegnere ducale Danesio Maineri, mentre il castellano Bergamino Landriani aveva ordine «di fare le spianate in circho a quella nostra cità in modo che venendo nuy lì le trovamo facte et ben ordinate, et che possiamo andare ad falcone et ad altri nostri piaceri». La presenza del duca a Novara riportò all’ordine del giorno la questione relativa al cantiere del castello: un primo segnale di un’imminente ripresa dei lavori fu dato dalla presenza nel mese di agosto di Bartolomeo Gadio; poi, alla metà di settembre, con l’arrivo in città di Danesio Maineri i lavori finalmente ripartirono. Oltre al cantiere del castello l’ingegnere ducale aveva avuto incarico di provvedere anche alle riparazioni delle mura cittadine presso la Porta di S. Agabio e di realizzare importanti opere alla rete fognaria della città.
Durante l’inverno la direzione dei lavori, dopo la partenza di Danesio Maineri, passò a Bartolomeo Gadio, mentre il referendario Pecchi curava l’approvvigionamento dei materiali, cercando di non fare mancare nulla al cantiere. Grazie alla proposta del Gadio, approvata dal segretario ducale Cicco Simonetta, di chiedere un prestito, garantito da una fideiussione ducale, al nuovo castellano Francesco
de Trevio, fu possibile il reperimento delle risorse finanziarie necessarie per la ripresa dei lavori, che procedettero alacremente per tutto il 1473. Non senza qualche battuta d’arresto però, come nel mese di agosto, quando si verificò il crollo improvviso di un ampio tratto di muro che rallentò temporaneamente i lavori, costringendo gli ingegneri Bartolomeo Gadio e Maffeo da Como ad accorrere per la valutazione dei danni e per impostare gli interventi di ripristino dell’opera.
Ben presto tornarono a presentarsi i consueti problemi relativi al finanziamento dell’opera. I lavori al castello dovevano essere a totale carico delle finanze statali, tuttavia la Camera ducale, che nel 1474 per l’opera aveva stanziato la notevole somma di 4000 ducati, alla fine dell’anno ne aveva effettivamente resi disponibili soltanto 2750: una somma insufficiente anche soltanto per pagare operai e materiali, e che metteva in pericolo il proseguimento stesso del cantiere. Inoltre, con l’avanzare dei lavori, come risulta da una lettera del maggio 1476 dell’ingegnere ducale Maffeo da Como, ci si rese conto che lo scavo delle fosse del castello comportava necessariamente anche un intervento radicale sulla rete fognaria cittadina e sui suoi scolatori per lo scarico delle acque reflue al di fuori della cerchia muraria e dei fossati della città; intervento in parte già contemplato nell’incarico attribuito al Maineri nell’autunno del 1472, che però avrebbe dovuto risultare a carico del comune di Novara, il quale invece non aveva nessuna intenzione di accollarsene la spesa. La comunità infatti, che durante gli anni di attività del cantiere del castello aveva sempre cercato di essere coinvolta il meno possibile in qualunque spesa e carico che potesse ricadere su di essa - come, ad esempio, avvenne per i servizi di trasporto dei materiali per il cantiere il cui onere riuscì a scaricare sugli abitanti del contado – e che anche per fare fronte ai capitoli di spesa che le spettavano direttamente – come nel caso dei lavori di riparazione e ristrutturazione delle porte nella cinta muraria cittadina – era costretta a ricorrere all’imposizione di una taglia straordinaria ai cittadini non possedendo una sufficiente disponibilità di cassa, era molto restia a intervenire in qualunque modo e tanto meno aprendo i cordoni della borsa per soccorrere la Camera ducale nelle spese collegate al cantiere del castello.
Nonostante le difficoltà si continuò a lavorare. A fine giugno giunse di nuovo in città Danesio Maineri con l’incarico di seguire il procedere dei lavori ai castelli di Novara e di Galliate, mentre il referendario riferiva che in quei giorni «s’è lavorato et se lavora in la quadra de questo vostro castello verso la ciptà et gli è facto uno belissimo lavore, videlicet in tirare suso la torre ch’è sotto la Mirabella braza .v. et così in bechadelare una parte de dicta quadra et fare ambeduy le scale de dicta torre»; così come si lavorava al rivellino dell’ingresso sud del castello, mentre quello presso la porta settentrionale era ormai pressoché terminato. L’ingegnere auspicava che il duca vedesse presto i risultati del buon lavoro svolto, «perché crediamo firmiter gli piacerà grandissimamente»; e il suo auspicio fu ascoltato: il 14 dicembre 1476 Galeazzo Maria Sforza ebbe occasione di visitare il castello, soltanto pochi giorni prima di essere assassinato a Milano il giorno di santo Stefano.
La morte del duca aggravò ulteriormente la situazione del cantiere: il terremoto politico che seguì quell’evento spinse inevitabilmente in secondo piano l’opera intrapresa al castello di Novara, rivolti a ben altro erano in quel momento i pensieri e le preoccupazioni alla corte di Milano. Le lettere indirizzate a Milano dal referendario Pecchi con la richiesta di nuovi finanziamenti non ebbero seguito. Egli scriveva, il 10 gennaio 1477: «Io otto anni fanno ho havuto lo carico [de] fare fari questo castelo de Novaria de le vostre illustrissime signorie et la immortale memoria del nostro illustrissimo signore haveva ordinato che, de presente, il fuse fornito, cioè da qui a calende de agosto proximo che vene […], de presente saria bene a dare principio che la fossa de dicto castello fuse spazata, veni de fare fornire le torre et revelini facendo de presente opportune provisione al dinaro». Suggerendo anzi, viste le difficoltà, di sospendere temporaneamente i lavori al castello di Galliate per utilizzare i materiali e le risorse destinati a quel progetto per il cantiere di Novara. Ogni iniziativa del referendario cadde nel silenzio, anzi la sua conferma nell’ufficio fu revocata, ponendo fine alla sua permanenza come ufficiale del duca a Novara; nel luglio successivo, pochi giorni prima di lasciare l’incarico, manifestava la sua delusione scrivendo: «Qua non se lavora a questa rocha per defecto de dinari, che me fa grandemente marevegliare che havendo fato de le dece parte le nove, non se debia fornire questa ultima parte, maxime che la cossa grandemente importa».
Dopo l’allontanamento da Novara del Pecchi, l’iniziativa fu ripresa nel gennaio 1478 da Bartolomeo Gadio, più volte impegnato in passato nel cantiere del castello; egli riuscì a ottenere un’assegnazione di 2000 ducati per potere finalmente portare a termine i lavori. Il denaro però tardava a essere reso disponibile: il primo accredito avvenne soltanto alla fine di giugno e solo allora il cantiere poté ripartire; gli accrediti successivi continuarono a giungere con grande ritardo e sempre per importi inferiori a quanto stanziato. Nel febbraio 1479 i lavori al cantiere erano ancora ben lontani dall’essere portati a compimento. I lavori proseguirono stancamente nel mese di maggio, ma poi, in mancanza di ulteriori finanziamenti, ci si dovette rassegnare all’inevitabile conclusione che «non habiando altri dinari hè forsa abandonare il dito laborerio».
Nonostante le voci a favore di una ripresa dei lavori - «questo castello de la cità de Novaria sta molto malle, zoè le tore qualle sono discoperte et il revelino qualle è verso la cità che com pocha spexa se fenirebe» -, il cantiere, ora affidato all’ingegnere Ambrogio Ferrari era ormai fermo da tempo: l’opera, così come era stata progettata e voluta dal duca Galeazzo Maria non sarebbe mai stata portata completamente a termine. In una lettera del 23 settembre 1481 il castellano Giovanni Calco manifestava ai duchi la sua indignazione, lamentando il fatto che «queste tore sono tute discoperte et hè grandissimo dampno de vostra signoria, fin a questa hora non ho visto opera alchuna, item avixo quella como questa rocha tuta ci piove et marcisse li legnami».
Alcuni anni dopo, in seguito ai fatti del giugno 1495, con la resa della città di Novara e del suo castello ai francesi, il nuovo duca Ludovico il Moro decise di intervenire nuovamente sul castello affidando l’incarico all’architetto boemo Giorgio Trebeser: le opere, concluse nel 1499, comprendevano la costruzione di una nuova torre, di un nuovo rivellino a rinforzo della principale porta d’accesso e interventi sul muro a scarpa della fossa che fu a sua volta allargata. Ludovico il Moro in vista a Novara il 9 agosto 1499 ne esaltava la fermezza delle difese, descrivendola «tanto gagliardamente fortificata che la si può numerare tra li loci inespugnabili, tanti e tali sono li ripari et bastioni de li quali è circondata». Il duca allora non poteva saperlo, ma non fu così. Il castello, come la città, subì assedi, passò più volte di mano, fu sottoposto nel tempo a numerosi altri lavori di restauro e di rafforzamento delle sue difese, sopravvisse alla caduta del dominio sforzesco: i tempi però erano davvero cambiati, grandi innovazioni tecniche in campo bellico avevano rivoluzionato il modo stesso di concepire le difese, il giudizio di Machiavelli era ormai condiviso da molti, almeno per quanto riguardava le opere tradizionali di fortificazione, e il castello voluto e progettato da Galeazzo Maria Sforza era una di queste opere. Nella nuova era delle artiglierie, dei terrapieni e dei bastioni il castello sforzesco di Novara era ormai considerato vecchio e tecnicamente superato.
Fonti
Archivio di Stato di Milano:
Archivio ducale visconteo-sforzesco, Carteggio Interno: 741 (1450-1457), 824 (1468-1470), 825 (1471-1473), 826 (1474-1478), 827 (1479-1483), 828 (1484-1493)
Sezione storico-diplomatica, Autografi: Ingegneri e architetti, 85 (Danesio Maineri), 88 (Bartolomeo Gadio);
Autorità civili e militari, 199-203, Castellani dello Stato di Milano;
Autorità civili e militari, 228, Piazzeforti
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Castelli, fortificazioni e difesa locale: le strutture difensive degli Stati regionali nell’Italia centro-settentrionale fra XIV e XV secolo, in
Guerre, fortification et habitat dans le monde méditerranéen au Moyen Âge (Colloque organisé par la Casa de Velasquez et l’École française de Rome, Madrid 24-27 novembre 1985, actes recueillis et présentés par André Bazzana), Macon 1988, pp. 135-141
Testo pubblicato in:
Rocche e castelli del novarese, Bolzano Novarese 2010, pp. 21-31
- Autore:
- [Roberto Bellosta]
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