Il teatro dei burattini (denominato tout-court “i giupìtt”) appariva invece improvvisamente (per l‘allestimento era sufficiente qualche ora), su di una piazzuola situata nell’estremo angolo verso lago della attuale Piazza Marconi, laddove cominciano adesso i giardini pubblici.
La Via Principessa Margherita, interrotta a lato della Chiesa Parrocchiale dalla strada statale del Sempione (lo “stradòn” per intenderci) riprendeva poi verso il lago, a lato dei “giardinetti”, con un largo acciottolato suddiviso in tre parti da due strisce parallele in lastroni di granito detti “trattoirs”, s ui quali scorrevano le ruote dei carri, mentre i cavalli restavano al centro. La strada terminava allo “scalo merci”, un piazzalotto di qualche centinaio di metri quadrati, costruito alla riva del lago con grossi blocchi di granito. Vi attraccavano i “barcòn”, tozzi e lenti natanti a motore da i quali venivano scaricati ghiaia, sabbia e pietrisco per le costruzioni. I carrettieri provvedevano poi a portare il materiale a destinazione nei vari cantieri o depositi.
Alla fine della strada il robusto muro di sostegno dell’angolo estremo dei “giardinetti”, che sovrastavano di qualche metro, delimitava in modo particolarmente adatto il piazzaletto dei “giupìtt”. Il pubblico stava in piedi, oppure poteva sedere su qualche panchetta improvvisata con assi, dal lato verso la piazza. Il burattinaio poteva armeggiare dalla parte verso il muro, all’interno del teatrino, con nessuno alle spalle. Un lampione mandava fioca luce tra il fogliame, ma era provvidenziale per far scendere una presa di corrente con una lampadina che illuminava il proscenio. Il palchetto era rudimentale; pochi assi da muratori inchiodati e fasciati alla meglio con carta colorata. Un cartello a stampatello ben leggibile per i ragazzi, indicava l’ora (approssimativa) delle rappresentazioni, i titoli delle opere programmate e le sere di permanenza, salvo cambiamento per cattivo tempo. Le trame erano esili, talmente esili da essere quasi inconsistenti. Quasi sempre una storia d’amore tra una principessa e un aitante cavaliere, tra una servetta e un Arlecchino. Certo i dialoghi non assurgevano al lirismo di Paolo e Francesca o di Giulietta e Romeo! Seguivano diatribe tra comari, sciocchezzuole sfornate a getto con doppisensi insulsi per adulti di bocca buona, qualche barzelletta, tanto per prendere tempo e arrivare poi ad accontentare i più piccoli che attendevano impazienti l’apparizione del Diavolo, tirato in ballo non si sa come. Immancabilmente un monologo del Gianduja (siamo in Piemonte, perbacco!) e il sopraggiungere di due ubriachi litigiosi che dopo alcuni sproloqui si scambiavano (ah! Finalmente) un fracco di legnate. Uno picchiava proprio sodo. A un certo momento traballava il teatrino, il fondale, il sipario, l’unica lampadina. Il picchiatore insisteva, l’altro sembrava quasi morto. I più piccoli trattenevano il fiato, i grandicelli gareggiavano a chi rideva più forte. Gli adulti abbozzavano un sorriso, mentre due carabinieri barbuti avanzavano dai due lati del teatrino e agguantavano lestamente i due litiganti per portarli in prigione. Il burattinaio si sporgeva pregando gli spettatori di non allontanarsi subito per dar tempo a lui e alla moglie di ripetere un piccolo giro per raccogliere ancora pochi spiccioli.
Gli “omoni” o “fachiri” arrivavano invece durante l’estate, il mattino di un venerdì, giorno di mercato. In un angolo della piazza, scelto strategicamente, stendevano alcuni sacchi di juta, preparavano l’armamentario per le loro esibizioni e toltesi le magliette, rimanevano a torso nudo. A questo punto un piccolo crocchio di curiosi si era già formato. I ragazzini che premevano troppo erano allontanati con modi un po’ bruschi, sia per ragioni di spazio, sia perché presumibilmente poco remunerativi.
All’inizio “giochetti” di poco conto: piegatura di barrette di ferro, incurvatura e ricurvatura di tondini, quasi fossero spaghetti, estensione di molle d’acciaio, conficca mento di lunghi chiodi, con sola forza di braccio, in tavole di legno di diverso spessore. Alcuni assi venivano poi spaccati in due con un secco e robusto pugno. Poi uno dei due “fachiri” iniziava colazione a base di viti, dadi, cocci di ceramica. Qualche sorsata d’acqua da un fiasco, tanto per deglutire, e poi completava il pasto frantumando fra i denti una lampadina. Pane amaro! Pane molto amaro! Ma per procurarsi il pane, anche per qualcuno che era forse rimasto ad attendere a casa, bisognava andare oltre. Sul sacco-stuoia erano preparate alcune catene con anelli di varia grossezza che erano date da esaminare al pubblico per farne constatare l’integrità. Legati i polsi, era poi un gioco far saltare le più piccole, con un certo sforzo saltavano le medie, con difficoltà le grosse. Una catena era poi fissata intorno al torace dell’”omone” più robusto il quale si gonfiava, si gonfiava, tendeva i muscoli, si accendeva in viso, colava sudore, ansimava, sembrava teso allo spasimo, finché la catena cadeva a terra spezzata. In uno scodellino di latta il compagno raccoglieva le monetine. Qualcuno commosso metteva una lira. Bisognava poi pensare al companatico per aiutare la digestione e forse ad un bicchiere di vino perché i bulloni e le viti non prendessero la ruggine.
Un sacco veniva cosparso di cocci di bottiglia e un “fachiro” (Oh! Dio! Ma solo adesso si notavano segni di grosse cicatrici sulle schiena) vi si sdraiava sopra. Il compagno prendeva una grossa pietra e gliela appoggiava sul petto. La pietra era stata presumibilmente “lavorata” in precedenza, ma l’effetto era raccapricciante. Una mazza di ferro, un colpo ben centrato e la pietra si spaccava in due ricadendo ai lati del torace. Il “fachiro” lesto si rialzava.
Anche per quella volta gli era andata bene e poteva sperare in qualche lira in più.
Di tanto in tanto, non a date fisse, ma quasi sempre nei giorni immediatamente susseguenti alla fine di particolari festeggiamenti o sagre nei più grossi paesi sul lago (Intra, Laveno, Arona) arrivava l’organino. Sbarcava all’imbarcadero, volenterosamente aiutato a risalire la passerella e generosamente sospinto a percorrere le poche decine di metri per raggiungere la tettoia della Ferrovia del Mottarone. Pochi giri di manovella, le prime note echeggiavano nell’aria e diffondendosi dalla piazza raggiungevano, al di là della strada, le prime case. Subito una animazione, qualche accenno a un passo di danza, un “darsi la voce” fischiettando o canticchiando un ritornello.
Intanto la “troupe”, attraversata la piazza, appariva all’inizio della via Principe Tommaso. Sì, perché veramente di “troupe” si trattava. L’omino che trainava il suo carrettino era accompagnato da due vispi e intelligenti cagnolini che, intuendo di dare spettacolo, tenevano un’andatura composta e dignitosa. Poi c’era la “star”, vestita con una casacchina rossa, ma ne aveva in guardaroba di altri colori. Assicurata con una piccola catenella viaggiava saltando continuamente sul carrettino e sull’organetto, dispensando saluti e “sorrisi”. Il codazzo dei ragazzini entusiasti oltre il limite di sicurezza, aumentava di numero e di impeto. L’omino sudava sette camicie per trainare il carretto, difendere la manovella e certi lucenti pomoli dell’organetto da troppe manine protese. Mentre un cagnolino lanciava guaiti ad ogni pestata di zampe, l’altro, messo da parte il sussiego dell’artista e risentendosi semplice cane, abbaiava per ristabilire un poco di ordine. Così tra balzi e scossoni, grida, risate, abbaiamenti, guaiti, strimpellamenti, soste con affannosi e rapidi giri di manovella perché il rullo non si fermasse nel momento meno propizio, si arrivava alla Piazza del Mercato. Qui finalmente un po’ di spazio per un relax per tutti, compresa l’allegra scimmietta che, abbandonata l’eccitazione che l’aveva presa fin dall’arrivo, assumeva atteggiamenti più pacati preparandosi a collaborare con il suo padrone per altre incombenze. I motivetti erano variati con la manovra di certi comandi, mentre era costante la necessità di tenere la carica.
L’omino, sempre badando ai ragazzini terribili, doveva poi trovare il tempo per esporre le “merci in vendita”, che erano dei fogli di carta colorata (rosso, giallo, arancione, verdino) della grandezza di un foglio di giornale, con i testi delle canzoni.
Rileggiamo insieme qualche titolo:
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Donna! (Certo sei nata per farmi soffrir!)
Mimosa! (Quanta malinconia nel tuo sorriso!)
Mimi! (Pei tuoi capricci t’ho amata!)
Come una coppa di champagne tu mi vuoi ber!
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La festa e il trattenimento musicale continuavano per un po’ fintanto che, avvicinandosi il mezzogiorno, i ragazzi cominciavano a dileguarsi, gli adulti riprendevano le loro occupazioni e giardinetto di una vicina trattoria offriva ombra, protezione, quiete e riposo alla “troupe” per una non più dilazionabile necessità di rifocillarsi.
Alla sera, grande trattenimento artistico-musicale, magari nel medesimo giardinetto della trattoria (g.c.).
L’omino suonava con molta buona volontà una trombettina. Marcette militari e patriottiche. Il ricordo di quel 4 novembre 1918 era ancora vivo e il pubblico era sensibile a certi richiami e facile all’entusiasmo.
I due cagnolini erano di razza indefinibile: sembrava che fra gli antenati avessero avuto dei fox-terrier, vivaci, intelligenti, docili, obbedienti. Con un piccolo cappellino rosso fissato sul capo, danzavano, correvano, saltavano a suon di musica, marciavano dritti sulle zampine posteriori, facevano buffe capriole, rotolavano sulla stuoia di juta opportunamente distesa, facevano il finto morto, mimavano il litigio, fingevano la disobbedienza; poi giravano tra il pubblico tenendo fra i denti una specie di scodellino di filo di ferro intrecciato e rivestito di stoffa colorata. Sopportando pazientemente carezze, palpeggiamenti, pacche sul sedere, raccoglievano il sudato compenso al loro vivere d’arte. Dopo l’omino si improvvisava anche cantastorie, ispirandosi ai più grandi avvenimenti nazionali di cronaca nera o rosa, mescolando battute, barzellette, apprezzamenti sulla bellezza delle ragazze presenti finché affiorava ancora il patriottismo e, di conseguenza, l’opportunità di raccontare qualche epica azione di guerra particolarmente incentrata sulle glorie delle Penne Nere. Applausi e commozione. Ancora con la trombetta il motivo di:
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Quando passan per la via
gli animosi Bersaglieri
sento affetto e simpatia
pei gagliardi militari!
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Ripreso in coro da buona parte degli spettatori. Giungeva il momento della “star” che avendo già dato il meglio di sé accompagnando le esibizioni dei cani, seguendo il repertorio musicale con ogni possibile fantasioso intervento, era salita su di una piccola piattaforma in alto su un trespolo per godersi un po’ di riposo e anche i dovuti applausi. L’omino era ormai lanciato verso la fine del racconto. Parole e frasi sempre più impetuose, ricerca di effetti: la Patria era libera, unita, ma un ipotetico nemico avrebbe potuto ancora aggredirla, comprometterne la rinascita, insidiare la concordia fra i cittadini. Bisognava vigilare. La scimmietta dall’alto del trespolo si faceva guardinga, assumeva un’espressione preoccupata. Da dove sarebbe giunto il nemico? Il racconto proseguiva con allusioni allora non sempre percepibili ai più.
L’atmosfera si faceva sempre più intensa finché arrivava l’ordine drammatico: “Salva l’Italia!” e la scimmietta, subito assalita da un impeto frenetico, pervasa da un entusiasmo irrefrenabile, partiva di slancio verso l’angolo dove era l’organino e ritornava dispiegando una bandierina tricolore che collocava in alto sul trespolo. Sempre più rapida rifaceva il percorso e ritornava alla piattaforma stringendo un fuciletto di legno, restando impavida di fronte al nemico. Gli applausi scatenati dall’apparire del tricolore erano ormai fragorosi. Anziani, piccini, donne, ragazzi… tutti, tutti!
Ma la voce dell’omino riusciva ancora a trovare spazio per riemergere: “Spara!”, la scimmietta puntava l’arma verso l’alto, tirava il grilletto… e lo schiocco di un piccolo turacciolo che usciva da una canna, trattenuto da una cordicella, assicurava che la Patria era salva e che il nemico era in fuga. Un visibilio di grida e battimani. Nell’angolo l’organetto era a piena carica. Bastava che un ragazzo fidato, all’uopo istruito, muovesse un certo aggeggio e…
“Vaaaleeenciaaa! Paradiso d’un sorriso dalle mille seduzion!”
Ciao scimmietta! Ciao cagnolini! Grazie omino! Ciao organino! Arrivederci! Arrivederci!