STRUMENTI CULTURALI

del Magazzeno Storico Verbanese

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Articolisti:
Müller, Carlo
Titolo Articolo:
Intra - I tumulti contro le Sbianche (1758) - parte 03
SottoTitolo Articolo:
Testata ospitante l'articolo:
La Vedetta
Data:
1905 mag 06
Progressivo di Edizione:
a. 020 (XX), n. 034 (1905 mag 06)
Note Generali:
E per il primo Sua Eccellenza prende la parola significando ai convenuti come Sua Maestà «per mero tratto di sua real clemenza e per dare un distinto contrassegno, a questi suoi sudditi, della paterna cura con la quale veglia ad ogni loro vantaggio», sulla semplice notizia del sospetto nato in queste popolazioni, che le sbianche dei dintorni potessero arrecare pregiudizio ai frutti delle campagne, si era degnata, prevenendo ogni ricorso, mandare sul luogo, a di lei spese, lui delegato, a raccogliere dalla viva voce degli incriminatori gli argomenti di tale accusa e «a chiarire ogni cosa per un opportuno disinganno o reale provvedimento»; soggiunge stargli più che tutto a cuore e raccomandare caldamente che si facciano le rimostranze nei debiti modi, «con tutta quanta la sottomissione e quiete», insinuando con garbo e destrezza, in via di delicato ammonimento, come «Sua Maestà, che non voleva alcun tumulto, avrebbe avuto il modo di correggere li sconcerti» che si avesse, per caso, in animo di far nascere, mettendo a segno le teste calde, se ce n’erano.
Data poi la parola agli accusatori delle sbianche, dopo due avvisaglie del dottor Rottini, apre il fuoco regolare il signor Bernardo Maffei, osservando «l’annientamento et imperfezione de’ frutti in queste campagne non puoter procedere che dalle dette bianche, mentre, dacché queste s’eserciscono in questo distretto, egli vidde, anche in tempo d’estate, alzarsi nebbie di prima non vedute, le foglie delli alberi imbrattati di calce, e così frequenti le flussioni delli occhij, come di ciò deporre con giuramento prottestossi egli pronto».
Gli succede in campo il notaio e causidico Bernardo Franzi, armato di un memoriale, che presenta al signor conte, dove, dimostrata bellamente la malignità che ha in sé stessa la nebbia naturale, argomenta che di ben peggiore e più nociva natura abbia da essere la nebbia artificiale, che dalle tele poste a sbiancare si solleva «foltissima, che pare una nuvola» e portata dai venti or qua or là, «infetta tutto il lago Maggiore e tutti questi contorni, a tal segno che doppo che hanno multiplicato queste sbianche, i poveri massari non hanno con che vivere, perché essendo infetti tutti questi paesi dalla malignità di questa Nebbia, non si raccoglie né grani né uva; e quelli che vivono solo con entrate che rendono le campagne arative e vignate, sono necessitati a vivere tutti miserabilmente e far debiti, perché la cavata dei beni non è sufficiente per pagare i carichi reali». Né vale obbiettare, aggiunge l’esperto e consumato causidico, che i conduttori delle sbianche vàntino in loro favore un consulto di medici periti; «perché» – osserva, non senza fortunata malizia, l’uomo di toga, lanciando ai signori medici una frecciata, che tocca il segno – «talvolta anch’essi danno a un povero infermo una medicina per un male e poi trovano essere stato altro male che ha portato il povero infermo alla sepoltura». Ravvedimento, invero, alquanto tardivo da parte della scienza salutare, e consolazione un tantino magra da parte del poveraccio al camposanto.

____

Il Sindaco Generale della Degagna di S. Pietro, alla sua volta, fa notare che la fallanza lamentata dei raccolti, è andata crescendo, in via parallela e in ragion diretta, col crescere di numero e di importanza delle sbianche; che in queste poi stia la causa di quella, è voce pubblica, vox populi, confermata nel modo più convincente dal fatto dei «segni che quotidiani si vedono, cioè sollevazioni di nebbie dal luogo ove distese si trovano le tele delle bianche sodette, fettore da dette nebbie prodotto, che si sente lontano più di due miglia, volatili di calce che si osservano su le foglie» e altre simili diavolerie. A dare poi il colpo di grazia alle povere sbianche, presenta un suo memoriale, grave di arruffata ma ponderosa dottrina, dove, dopo averle chiamate a rispondere del «nottabile pregiudicio dei frutti, de’ bigatti, delle Appi e della sanità de’ corpi humani» e perfino «della destruzione delle maggior quantità de’ pesci», s’addentra a spiegare che, favoriti «dal calore del sole e del terreno medemo, fermentano varij bittumi e minerali dalle stesse tele così acconciate, con tali ingredienti adaquate, e dalle più profonde caverne sublimansi particelle d’indole per lo più maligna, effilibrandosi per la porosità della Terra, e dalle medeme tele giongono ad inidarsi in quella dell’aria, che qual propizia madrice le accoglie, imputridiscono cadaveri ed altri misti corruttibili su la superficie del terreno, e colla putredinosa fermentazione volatizate, si licenziano da quelle parti fermentative che volazano in grembo all’aria, quale essendo un corpo poroso, è dispostissimo a tante variazioni quante sono nelle staggioni li gradi del calore e del freddo, li venti che soffiano, li effluvi che si imischiano, causano le costellazioni che succedono...» e via via, di questo bell’aìre, a vele gonfie, nel mare magno della più ingegnosa e peregrina scienza fisica e metafisica da disgradarne il povero Aristotele, che poteva andare a riporsi quando che fosse.
All’erudito causidico, con l’intermezzo di due altri oratóri spiccioli, che si contentano di armeggiare sul solito cavallo di battaglia delle nebbiette, le quali svaporando dalle tele e portate qua e là, dove si posano, fanno dileguare i frutti ecc. ecc. sottentra in lizza un Bernardo Nicola Fighetto rappresentante della Degagna di S. Martino, il quale rimette al signor conte un altro memoriale: «nelli nostri Paesi – dice il brav’uomo – le broppe dimostrano li frutti, massime le viti; quando erano le uve disfiorite, a ricordanza de’ uomini vecchi, fuori che una gragnuola, che fosse di castigo dell’Altissimo Iddio, nelli nostri paesi [l’uva] si conservava, e tutti li altri frutti si conservavano di tutta qualità; e adesso sono anni sei incirca, che tutti li frutti patiscono l’influsso, ed anche le piante delli detti frutti patiscono». Che poi di questa bella novità siano da ringraziare le sbianche, è cosa risaputa da tutti e anche evidente per sé, quando si badi a quella tal nebbia, la quale dove s’abbatte, lascia sulle piante le traccie della calce che contiene; intanto, non solo i frutti, ma anche «le Appi, o sian Alveari, si perdono e muoiono continuamente; le bestie bovine da frutto si vede che non rendono più in frutto come rendevano» e, quel ch’è peggio e barbina davvero, gli stessi «frutti delli corpi humani non danno più quella sostanza che davano da molti anni passati».
In che diamine consistesse per l’appunto questa sostanza che, al tempo del signor Bernardo Fighetto, per colpa delle sbianche famigerate, i nobili «frutti delli corpi humani» non davano più come per l’addietro, noi poverini non arriviamo a intendere, ma certo era da impensierirsene sul serio e a buono.
A Cura di:
   [Francesco Malingamba]

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