STRUMENTI CULTURALI

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Articolisti:
Müller, Carlo
Titolo Articolo:
Intra - I tumulti contro le Sbianche (1758) - parte 02
SottoTitolo Articolo:
Testata ospitante l'articolo:
La vedetta
Data:
1905 mag 02
Progressivo di Edizione:
a. 020 (XX), n. 033 (1905 mag 02)
Note Generali:
Il popolo, impensierito e sgomento, badava a chiedersi la causa di un fatto così doloroso e strano; e non essendo disgraziatamente in grado di trovar la vera, né sapendosi rassegnare a non averne qualcuna, andò ad accattarne una falsa, quale, senza troppa fatica e a buon mercato, gli era fornita dall’ignoranza superstiziosa e dai pregiudizi del tempo, incolpando di tutto quel malanno l’esercizio delle sbianche, l’apertura delle quali, per una malaugurata coincidenza, veniva appunto a combinare col primo infierire del flagello e con la comparsa dei fenomeni sospetti.
Si andò a supporre e si volle spiegare che dalle tele, imbiancate con calce in aggiunta ad altra robaccia allora mal nota, e stese in grande quantità ad asciugare, si sollevassero vapori nocivi i quali, spandendosi nell’aria, infettassero, dove andavano a posarsi, l’uva e il fogliame; del che non si mancò di ravvisare una prova di tutta evidenza, una traccia materiale, palpabile, nella polverina biancastra dianzi ricordata, la quale, a giudizio degli inquisitori, altro non poteva né doveva essere che il residuo appunto della calce e di quei tali altri ingredienti arcani, adoperati nell’imbiancatura delle tele.
La stravagante ed assurda ipotesi, forse appunto in grazia e misura della sua stravaganza e assurdità, trovò credito e favore, non solo nel popolino ignorante e corrivo, ma anche presso le persone fornite d’una certa qual dose di coltura e di prudenza, e presso gli stessi magistrati del luogo, acquistando, bel bello, agli occhi di tutta quella brava gente, la chiarezza meridiana e l’evidenza indiscutibile di un assioma. Stabilita così la diagnosi del male e accertata l’origine di tutti i guai lamentati, si pensò al rimedio più adatto, più pronto, più efficace, più radicale: togliere di mezzo, senz’altro, le sbianche, causa di tanta peste e della conseguente carestia.

* * *

Le prime mosse a questa crociata vennero da un’adunanza generale, tenutasi il giorno 26 di luglio dai sindaci della Degagna di San Pietro. Per deliberazione presa in quel consesso, e per incarico avutone, il Sindaco Generale della Degagna, Giuseppe De Albertis, presentò alla nostra Comunità un memoriale, inteso ad eccitare questo capoluogo a far causa comune col rimanente della giurisdizione e mettersi a capo nel progettato ricorso al re per impetrare la soppressione delle sbianche, alle quali dalla ormai universale e indiscussa credenza popolare imputavansi i malanni che affliggevano le povere campagne.
Convocatosi il nostro Consiglio, ai 3 di agosto, in adunanza straordinaria coi Maggiori Estimati, per discutere il grave argomento, deliberò innanzi tutto di deputare una commissione, composta del sindaco, di due reggenti e del menzionato De Albertis, la quale, seduta stante, si recasse dai proprietari a rappresentar loro le generali doglianze e tentare d’indurli a sospendere di moto proprio, in riguardo «al pubblico bene ed alla comune quiete», l’esercizio delle sbianche incriminate.
Intanto la seduta consiliare, a sollecitazione dei sindaci della Degagna, i quali, venuti a Intra apposta, reclamavano d’essere dal Consiglio sentiti in pubblico, era stata trasferita sotto al portico del Pretorio e mutata in comizio popolare.
L’ambasciata ebbe quell’esito che ben poteva prevedersi. Di ritorno, gli inviati riferiscono di non esser venuti a capo, con tutta la buona volontà messa in opera, ad ottenere dai conduttori delle sbianche l’invocato provvedimento di chiusura: uno di loro, Pietro Antonio Simonetta, aver dichiarato netto e tondo che tenendo egli la facoltà di sbiancare da decreto regio, solo da altro regio decreto intendeva che potesse venirgli tolta.
Fallita la prova delle trattative amichevoli, l’adunanza a unanimità delibera di esperire la via legale dei ricorsi al Governo del re, ordinando che da ciascuno dei comuni interessati si provvedesse con atto pubblico a costituire i rispettivi procuratori per l’eventuale proseguimento ed efficace appoggio delle pratiche a Torino.

* * *

Ma prima ancora che il deliberato ricorso al re fosse spedito a destinazione, Sua Maestà, informata per altra via più spiccia, del temporale che si andava addensando, con biglietto regio del 7 conferiva mandato di accomodare le cose intresi, prima che la matassa, già un tantino arruffata, s’imbrogliasse peggio e riuscisse poi più difficile dipanarla, al conte don Giovanni Castellani Tettoni, Regio Referendario del Supremo Consiglio di Stato.
Il quale degno e illustre magistrato, mettendo sollecitamente mano a eseguire la sua delicata missione, con eccitatoria degli 11 di quello stesso mese cominciò dall’invitare tutti i comuni e privati che «potessero avere interesse opur pretendessero aver raggione e fondamento da addurre contro l’esistenza delle Bianche delle tellerie esistenti in queste Vicinanze», a trovarsi il giorno 14, verso le ore 19, al Pretorio d’Intra, «affine d’intender a viva voce dal prefato Ill.mo signor Conte Regio Delegato quali sijno i sentimenti di S.M. il clementissimo Sovrano intorno all’affare delle Bianche».
Al giorno stabilito, il signor Delegato, da Pallanza dove allora si trovava, si trasferì per barca al nostro borgo. E Sua Eccellenza non ebbe al certo ragione di dolersi che gli invitati mancassero al convegno: perché, approdando alla riva intrese – riferisce il verbale tolto a guida in questa relazione – «affollato se gli presentò numerosissimo Popolo, verosimilmente di 2500 persone, composto di diverse genti, cioè nazionali [= locali, indigene, residenti di Intra], alpestri ed estere, chi con cavagni pieni d’uve, delle quali parte consonta et anerita si vidde e parte con grane mezzo seccate e nere, chi con rami e frondi, su de’ quali si scorgette materia bianca, gridando: Provvidenza! Provvidenza! Siamo mezzo morti di fame! Le Bianche sono la nostra rovina!».
Quanto questa accoglienza popolare, calorosa oltre l’aspettazione, andasse a genio al regio ambasciatore che veniva col ramo d’ulivo in mano, non ci è detto dal nostro verbale. Forse (suppliremo noi con l’immaginazione) sarà accaduto a lui quello che in circostanze critiche molto somiglianti era accaduto, cento e trent’anni prima, a un altro degno magistrato, al famoso Ferrer di manzoniana memoria; il quale, come ha cura d’informarci l’autore, che doveva saperlo di buon luogo, «sopraffatto e come soffocato dal fracasso di tante voci, dalla vista di tanti visi fitti, di tant’occhi addosso a lui, si tirava indietro un momento, gonfiava le gote, mandava un gran soffio e diceva tra sé: por mi vida, que de gente!».
Alle grida del popolo l’egregio conte Delegato, «con il più dolce modo», e probabilmente coi cenni più che con la voce, badando a rispondere che non si dubitasse, che tutti avrebbe sentiti, tutte prese in esame le loro lagnanze, si porta accompagnato dalla calca in subbuglio, al palazzo pretorio, si asside sotto il portico, al tavolo ivi predisposto, e viene attorniato dai consiglieri e maggiori estimati del borgo e dai numerosi rappresentanti venuti dai diversi luoghi della Giurisdizione e da fuori.
A Cura di:
   [Francesco Malingamba]

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