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Denominazione:
Breve Abstract:
V. De Vit, Il Lago Maggiore..., Vol. 02 p. 1 - 04 - Vita di Arialdo. Aperte violenze dell’Arcivescovo.
Abstract:
CAPO III.
Aperte violenze dell’Arcivescovo.

Conoscendo per esperienza Erlembaldo, che l’Arcivescovo era il più forte ostacolo ad una riforma solida e duratura, si portò a Roma una seconda volta per isvelare al Pontefice le perfide trarne dì quel mercenario pastore, affinché vedesse di metter argine a quei disordini. Giudicando allora il Pontefice necessario di scomunicarlo siccome indegno di quella sede rimandò Erlembaldo a Milano colla bolla di scomunica contro dell’Arcivescovo. Costui ricevutala montò sulle furie, e fatto il giorno appresso, era la vigilia di Pentecoste, adunare nella Chiesa maggiore di Milano il popolo, salì il pulpito tenendo in mano la bolla pontificia e dichiarando con aperta menzogna, che Milano per rispetto di S. Ambrogio non era mai stata soggetta alla Chiesa di Roma,1 e che ora una mano di faziosi quali Arialdo e compagni aveano congiurato contro la patria volendola privata della sua libertà e indipendenza, di che si aveva le prove, aggiungeva, in quelle carte, che teneva tra mani; per la qual cosa anche conchiudeva essere necessario di testamente punire coloro che avevano così iniquamente attentato contro la patria.2 Bastò questo perché il popolo, che prima aveva preso le parti di Arialdo, ingannato da quelle scaltre parole, lo abbandonasse gettandosi a favorir l’arcivescovo. Diradatasi quindi appresso nella chiesa la moltitudine i più arditi si scagliano contro di Arialdo, che erasi posto ad orare sulla gradinata del presbiterio, lo ghermiscono furiosamente e lo precipitano da quel luogo sul pavimento, dove carico di ferite lo lasciano come morto. Sparsasi in breve la notizia di questo fatto, i pochi rimasti ancora fedeli ad Arialdo, si uniscono insieme con Erlembaldo ed armati si pongono in sulle tracce dell’Arcivescovo, che sorpreso esso pure, mentre meditava la fuga, è lasciato egualmente carico di ferite quasi morto per terra. Però ben presto amendue si riebbero. Arialdo mercè le cure de’ suoi richiamato ai sensi, e veduta quella turba numerosa di popolo, che pentito del suo traviamento era accorso per lavar la sua onta col sangue degli avversari, salì sulla scalinata di quella Chiesa: e indicando a tutti co’ gesti il silenzio, così si fece a parlare:
«Se tutte le nostre membra, o carissimi, diventassero lingue, non potremmo bastantemente celebrare i prodigi, che Dio si è degnato manifestarci in questo giorno. Voi sapete che in oggi vi è stata un’ora, nella quale nessuno osava proferire parola in difesa della verità; e adesso non havvi alcuno che ardisca dir molto contro di voi. Se dunque il Signore ha riconosciuto i suoi servi per difenderli, è giusto che i servi riconoscano il Signore per adorarlo. Se i nemici di Dio e nostri intendessero quale sia la solennità ricorrente in questi giorni, non avrebbero pensato ciò che pure hanno commesso. Noi comprendendo la grandezza di tal festa, dobbiamo non solo adorar Iddio, ma ubbidire altresì ai suoi santi precetti. Egli comanda di amare i nemici, e di far bene a chi ci odia. Per amor suo dunque, io vi prego, deponete le armi, e venite meco, ove riposa il corpo di S. Ambrogio. Quivi uniti noi renderemo al Signore le debite grazie, e lasciando che gli emuli nostri passino questo giorno in pace, noi pregheremo per loro. Quelli che operano così acquistano eccelsa grandezza, mentre per testimonianza di Gesù Cristo, di figli degli uomini diventano figli di Dio».3
A tali voci un grido succede di ammirazione e di stupore: cadono di mano le armi ai più inveleniti, e ricomposti alla meglio s’indirizzano cantando inni di pace alla basilica di S. Ambrogio, donde, rese grazie al Signore, tranquillamente ritornano alle proprie case.
Ma ben diversamente si diportò l’Arcivescovo. Tratto fuor di pericolo fu suo primo pensiero il desiderio della vendetta: ed ecco il modo, col quale ottenne sciaguratamente il suo intento. Conosciuto per prova quanto sia leggera e mutabile la moltitudine, cercò innanzi tutto di guadagnarsene coll’oro il favore; e polche n’ebbe corrotta in questa guisa la maggior parte fulminò l’interdetto su tutta quanta la città protestando, che non sarebbe stato mai per levarlo, se prima non ne fosse uscito quel suo nemico d’Arialdo, e minacciando in pari tempo della perdita dei beni e della vita quei laici, che osassero di ospitarlo.




1 Ecco le sue parole, lasciateci scritte dal b. Andrea: Turbatio pestifera per hos (Arialdum et Herlembaldum) disseminata est, ita videam in his scriptis omnium nostrum perniciem contineri. Haec enim civitas ob reverentiam b. Ambrosii numquam Romanae paruit Ecclesiae. Ergo tollantur de terra viventium hi seminatores verborum, qui quotidie laborant, ut haec urbs pristinam et propriam perdat libertatem. Sulle parole nunquam Romanae paruit Ecclesiae veggasi il conte Giulini (I.c.), il quale confuta molto bene gli errori degli avversarii del nostro Santo.

2 L’Arcivescovo qui, come è facile vedere, confuse insieme in una sola la causa della Religione con quella dello Stato per ingannare il popolo e tirarlo al proprio partito. Del resto come v’ebbero allora dei partigiani dell’Arcivescovo, che sparlarono del nostro Santo e l’accusarono di fanatico e di zelante indiscreto, così anche nello scorso secolo e nel nostro troviamo degli scrittori, che non arrossirono di ripetere le stesse accuse contro di lui senza darsi pure la briga di esaminarne le fonti e mettersi sin da principio sul vero terreno della questione. Certo se queste cose non si spacciassero con un qualche apparato di scienza, sarebbe stato miglior partito il silenzio, ma trattandosi di scrittori, la cui autorità potrebbe talvolta indurre in errore i men cauti, ho stimato opportuno di fare un cenno anche di queste accuse, sebbene ciò sia alieno dallo scopo che mi sono prefisso. Ne sceglierò una, la principale, quella che pone Arialdo tra i novatori e corruttori dell’antico rito Ambrosiano. Ascoltiamo l’accusa dalla bocca di Pietro Verri, che nella sua Storia di Milano (ivi 1783, 4, T. I, p. 130) ci lasciò scritto: «L’anno 1063 Arialdo si pose a combattere generalmente tutti i riti della Chiesa Ambrosiana; e predicando dopo la festa dell’Ascensione ne’ giorni, ne’ quali secondo l’antichissimo nostro rito si fanno le processioni, e il digiuno, che chiamiamo le Litanie e le Rogazioni: lnanem esse ritum dictitat, nulla Christi vel discipulorum institutione traditum; ab antiquis tantum idolorum cultoribus usurpatum, qui vere ambire agro: in honorem Bacchi, Cererisque solebant; così il nostro Tristano Calchi ci riferisce aver sostenuto Arialdo che quel digiuno e quelle pie processioni non fossero cristiane, ma un avanzo del gentilesimo. Predicò dunque biasimando quella penitenza e invitando il popolo a pascersi bene e rallegrarsi nel tempo pasquale».
Questo racconto è pieno di falsità: lasciamo le ultime parole, le quali da sé sole chiariscono abbastanza i sentimenti dell’autore, e notiamo piuttosto come da tutto il racconto si scorga ad evidenza, che seguendo egli i partigiani del clero guasto e corrotto, confuse con essi, mentre si doveano distinguere, le Litanie o Rogazioni dal digiuno solito a praticarsi in quei giorni in alcuni luoghi. Quanto alle prime è falso che S. Arialdo abbia predicato contro di esse, come impudentemente asseri Arnolfo (I. III, n. 17) dicendo che Arialdus inter plures alias, quas induxerat in Ecclesiam novitates, letanias illas, quas Ambrosiani post Ascensionem dominicam antiquitus devotissime celebrant, suis praedicabat auditoribus execrandas, e tacendo affatto del digiuno; mentre è certo, che s. Arialdo predicò solamente contro il digiuno, come lo dichiara apertamente il b. Andrea nella vita di lui (c. V, n. 49-51), il vescovo Bonizone (l. VI, ad Amicum appresso il Migne T. CL), che così scrisse: sed venditores Ecclesiarum Mediolanenses capitanei... occasione accepta cuiusdam praedicationis quam venerabilis Arialdus fecerat in popolo dicens, non licere ieiunare in diebus Pentecostes, seditionem movent in popolo quasi hoc esset contro beati Ambrosii litanias, e più di tutti Landolfo, nemico dichiarato del Santo (III, ap. Migne I.c.). Non biasimò dunque Arialdo le processioni e le litanie, ma il solo digiuno in quei giorni, e non lo biasimò come fosse secondo rito Ambrosiano, ma come una novità di fresco introdotta (e forse dallo stesso Arcivescovo per piaggiare all’imperatore di Germania, dove quel digiuno si praticava, e guadagnarsi così lode di religiosità presso il popolo, come nota il Puricelli), e di più per correggere un abuso introdottosi egualmente di non digiunare all’incontro quando la Chiesa anche secondo il rito Ambrosiano lo prescriveva. Ecco le parole del B. Andrea: Triduanum illud ieiunium, quod inter Sanctos dies paschales contra antiquorum dicta Sanctorum, NOVITER est peragi usitatum, vehementer horrebat (c. V, n. 40. Quanto all’espressione: ieiunium vehementer horrebat, si confronti questo con altri modi scritturali consimili. Tali sarebbero a cagion d’es. quelli presso Isaia, 1, 13. Incensum (dicit Dominus) abominatio est mihi... Calendas vestras et solemnitates vestras odivit anima mea. Si vegga anche ivi stesso il c. 38, v. 3 e 4), e queste altre di S. Arialdo presso lo stesso: In istis diebus tam acriter vos affligere cerno, vestibus laneis induendo, nudis pedibus incedendo, ire pane tantummodo et aqua ieiunando, quomodo quando linee agere DEBITE IVSSU EST, vos nullo modo facere inspicio. Scitote, quia sicut unus ex diebus quadragesimalibus non debet frangi a ieiunio qui hanc significat vitam, sic procul dubio nec unus ex his diebus quinquaginta est ieiunandus, qui significat futuram, praeter sabbatum ante Pentecostem; et hoc non propter afflictionem, sicut cetera ieiunia alterius temporis, sed propter novorum fratrum expectationem, qui ad nonam regenerantur, quorum renovationem nos oportet ieiunos praestolari (ib. n. 50); e prosegue allegando la ragione per cui non si dovesse in quei giorni digiunare, appoggiato all’autorità del Concilio Niceno, dei sacri scrittori e specialmente dello stesso S. Ambrogio, di cui cita il discorso II fatto nella Pentecoste, nel quale questo S. Dottore spiega perché la chiesa in quel tempo pasquale oltre a non prescrivere alcuna opera di penitenza, ne tolga persino anche i segni, come quello del genuflettere in certe occasioni. Dal che si vede quanto falsamente siasi asserito aver voluto Arialdo far contro al rito Ambrosiano, mentre si potrebbe con sodo fondamento provare quanto fossero sovversivi di quel rito i nemici di Arialdo, i quali spacciavano impudentemente avere permesso S. Ambrogio al suo clero per una sol volta il matrimonio con una vergine. Su di che rimetto i lettori alla citata dissertazione del Puricelli. Del quale invece riporterò un passo tolto dai suoi Monumenti della Basilica Ambrosiana (n. 239) che rende ragione dell’animosità di alcuni scrittori posteriori contro del Santo con queste parole: de sancto isto martyre perverse admodum, vel ad minus haesitanter, plerique senserunt historici nostrates, scriptis utique decepti eorum, qui Simoniacis e clero Mediolanensi ac Nicolaitis favebant (vedi anche i numeri seguenti sino al 276). Tra i quali scrittori da collocarsi il Calchi, che visse più secoli dopo S. Arialdo, ed alla cui autorità si riporta il Verri, quando aveva quegli autori coevi che abbiamo citato, e dei quali pure si serve senza punto di critica allorché vuoi dare addosso al nostro Santo. Quanto poi al dirsi, che in fondo questo digiuno era cosa buona, né valeva la pena di levarlo, tanto più che in appresso fu anche accettato dalla Chiesa come scrive il Giulini, è questa un’altra questione, che non fa al nostro proposito. Chi inoltre volesse essere più diffusamente informato intorno alle Litanie e Rogazioni della Chiesa Ambrosiana legga la Dissertazione XXVI, pubblicata nel Vol. III delle Antichità Longobardiche-Milanesi del Fumagalli.

3 Parole tradotte dal Giulini della vita di S. Arialdo scritta dal B. Andrea, c. VI, n. 60. Da esso si scorge, quanto Arialdo fosse lontano dal predicare ed esortare il popolo alla violenza e ai saccheggi delle case dei preti: le quali cose se furono fatte, certo furono fatte contro sua volontà e da furfanti, che approfittarono dell’occasione, come anco succede ai dì nostri, per isvaligiare le case. Interim, scrive Arnolfo, praedones civitatis praeter aedes aliquas in Urbe dirutas, lustrabant parochiam, domos clericorum scrulantes eorumque diripientes substantiam. E soggiunge il Giulini (l.c. p. 18) che «Così scriveva Arnolfo allora tutto affezionato agli Ecclesiastici ammogliati, benché, poi, prima di terminare la Storia, riconoscesse il suo errore». Con ciò tuttavia non intendo di approvare tutto quello che fu allora fatto dai seguaci di Arialdo, e fors’anco da Arialdo stesso, ma questo anche ammesso, dirò che per portare un retto giudizio sulle azioni di alcuno è mestieri di collocarsi in quel tempo e in quelle circostanze di persone e di fatti, che le accompagnano, le quali possono alterarne o modificarne grandemente il valore. Per la qual cosa non posso in veruna guisa approvare il concetto che si fece del nostro Santo un Carlo Morbio, e che offerse ai lettori nella sua Storia di Novara illustrata con documenti inediti (Milano 1833, in 8.° Saggio I, p. 52) colle seguenti parole: «Stefano X spedì a Milano due suoi legati. Essi giunsero in tempo pel POVERO Arialdo, che dopo l’AFFARE della scommunica aveva SEMPRE avuta la peggio. La plebe lo accolse in mezzo ai motteggi, e vi fu taluno che in publica concione così lo arringò: Mentre tu pensasti a commovere il giudizio di questa inudita Patalia, qualunque si fosse la tua intenzione, avresti dovuto da prima con molti digiuni pigliar consiglio da qualche uomo religioso (Landulph. Sen. III, 7). Ma FORSE ad Arialdo tornavano un po’ INCOMMODI i digiuni… Arialdo, spalleggiato da Erlembaldo si pose a combattere i riti della Chiesa Ambrosiana e principalmente í digiuni delle Rogazioni esortando invece il popolo a PASCERSI BENE e a GODERSELA ALLEGRAMENTE. Il clero tumultuò di nuovo e Arialdo fu preso ed ucciso al Lago Maggiore, terminando così la sua EROICA predicazione». Un autore che sappia rispettare se stesso non iscrive certo in tal modo, né questo è un illustrare la Storia coi documenti.
A Cura di:
   [Luciano Besozzi]

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