Una delle prime cose, alla quale volsero l’animo i Comuni, tosto che si videro liberi dalla diretta e immediata autorità degli Imperatori, fu quella, come ho già accennato, di compilarsi un Codice necessario all’interno reggimento. Questo Codice, o corpo di leggi, che voglia dirsi, fu quello ch’essi chiamarono Statuti od anche ordinamenti, o tutto insieme Statuti e ordinamenti, secondo i quali era amministrata la giustizia, difesa la proprietà, assicurata e protetta la libertà personale e regolate in modo chiaro o preciso le funzioni de’singoli magistrali. Non tutto però era compreso o determinato negli Statuti, almeno sin da principio: accanto ad essi vigeva ancora in molte cose la consuetudine. Base poi di quelli e di questa era in fondo il diritto Romano, il quale può dirsi che non mai totalmente si giacque anche in onta alla barbarie dei secoli sin qui trascorsi. Chiunque voglia fare un confronto tra gli statuti non pochi, che abbiamo delle città in questa epoca coll’interno regolamento degli antichi municipii e delle colonie Romane, tenuto il debito conto delle differenze importate dalla ragione dei tempi, troverà una sufficiente conferma di quanto or ora ho asserito.
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Ho egualmente accennato di sopra elle oltre alle città
2 ebbero i particolari loro statuti anche le regioni e i borghi e castelli di maggiore importanza, e persino qualche terra di minor conto, colla differenza però, che questi secondi dovevano, per aver forza di legge, essere approvati dalle prime, o dalla immediata autorità, alla quale erano soggette le dette terre, borghi o castelli.
Tra i più antichi Statuti, che io conosca, sulle sponde del nostro Lago vanno a buon diritto ricordati quelli di Canobio e della sua pieve, già da pezza costituita in governo autonomo e solo dipendente dalla suprema autorità dell’Impero, come ho già detto a suo luogo. Dopo di questi vengono gli Statuti, d’Intra, Pallanza e Vallintrasca,
3 e quelli del nostro Vergante. Per dare un saggio di questa specie di legislazione oggimai abbandonata esporrò brevemente e per sommi capi questi ultimi, siccome quelli che più c’interessano da vicino.
Io non ho potuto trovare in quale anno avessero avuto principio gli Statuti di questa Regione: v’ha però ogni motivo di crederli molto antichi, giacché appare, da quanto abbiamo altrove discorso, che anch’esso il Vergante, staccato per lo meno sino dallo scorcio del secolo XII dal contado di Stazona, si sia costituito alla foggia della capitale in comune reggendosi dietro i propri statuti e con proprii magistrati quale una signoria
4 separata sotto l’immediata giurisdizione dell’Arcivescovo: il quale certo dovette, se non gli diede esso stesso, accondiscendere che se li formasse da sé, come oggimai portava l’uso comune.
E di fatto due copie ho vedute di questi Statuti col titolo
Statuta et ordinamenta Lexiae et Vergantis et Castellantie de Medina (oggi
Meina), l’una delle quali porta la data del 1359 esistente nella libreria Molli di Borgomanero, l’altra del 1393, esistente ora presso i figli dell’avv. Carlo Antonio Rabaioli Apostoli di Lesa, che aveva avuto la bontà comunicarmeli molti anni or sono. L’una e l’altra di queste copie mostrano, che questi statuti furono fatti essendo arcivescovo Antonio da Saluzzo, ed approvati da Giangaleazzo Visconti allora vicario imperiale, la qual cosa involge una difficoltà per parte dell’arcivescovo, che sarebbe stato traslatato dalla sede di Savona (nella quale si trovava già sino dall’anno 1356) a quella di Milano molto prima di quello che comunemente si tiene.
5 Checché però sia dell’anno, è certo nondimeno che con questa seconda data devono essere stati approvati e messi in esecuzione anche dopo che il Vergante dall’arcivescovo passò in potere dei Visconti, i quali, come abbiamo avvertito, se lo usurparono poi col titolo di conservatori. Risulta questo dal rescritto dello stesso Giangaleazzo del 21 marzo 1393 in fine degli Statuti, del quale mancano di conseguenza quelli che portano la data del 1359.
Furono compilati questi Statuti dagli uomini prudenti
Giovannòlo figlio del q. Leone da Lesa,
Goffredo d’Invorio abitante di Lesa e
Premolo figlio del q. Girardino
de Caxanis di Lesa, a ciò deputati dalla stessa Comunità del Vergante.
Sono in numero di 146 e costituiscono nel loro complesso un Codice di provvidenza amministrativa, civile e criminale. A norma di esso statuto un Podestà doveva risiedere in Lesa il quale chiamavasi anche Rettore di Lesa e del Vergante della Castellanza di Meina: esso era nominato dall’Arcivescovo. La comunità poi eleggeva i suoi consoli e questi d’accordo col podestà eleggevano dodici consiglieri che formavano il consiglio generale del Vergante. Da questo si nominava un canevario, il quale aveva l’officio di esigere i redditi e le taglie dei vani comuni dipendenti dalla sua giurisdizione e di custodire i libri delle condanne. Inoltre si eleggevano uno o due procuratori che insieme col canevario avevano eziandio la cura del ragguaglio dei pesi e delle misure, ed un notaio. Questi erano gli officii principali della Comunità del Vergante.
Il podestà, che poteva avere anche altra persona, che lo rappresentasse in qualità di suo vicario, era tenuto a reggere, assolvere e condannare secondo la forma prescritta dagli stessi Statuti, salva sempre la volontà e la disposizione dell’arcivescovo suo signore; pubblicava le grida e le prescrizioni; amministrava la giustizia in Lesa e negli altri luoghi del Vergante secondo l’esigenza delle circostanze: due volte al mese per lo meno si doveva portare a Meina per tenervi banco in giorno di sabato per gli uomini della Castellanza. Nelle deliberazioni da prendersi per l’interna amministrazione della comunità, il Podestà presiedeva il consiglio generale, il quale si adunava d’ordinario nel borgo di Lesa, e nei casi straordinarii in qualche altro luogo.
Il Vergante era poi diviso in più squadre secondo l’importanza dei luoghi e il numero degli abitanti. Quante fossero queste squadre non ho potuto rilevare con sicurezza. Nelle carte di questi tempi sono ricordate le squadre di Lesa e della Castellanza di Meina (vedi Statuto 42) e le squadre di Carpugnino e di Baveno. Esse squadre poi erano istituite non solo per tutelare l’ordine interno, ma eziandio per proteggerlo dai subiti moti e dalle incursioni dello straniero. Alcune di queste squadre godevano anche di una giurisdizione particolare, cioè a dire erano amministrate da un proprio castellano o podestà dipendente però per gli affari comuni da quello di Lesa e del Vergante. Questo podestà o castellano poteva anche avere il suo vicario ed era assistito da un notaio, il quale, per distinguerlo da quello di Lesa, si chiamava secondo notaio (Vedi lo Statuto 14). Ogni squadra poi aveva un servitore per mezzo del quale si diramavano gli ordini e le prese deliberazioni singoli comuni ed anche alle persone particolari, e si facevano le debite inquisizioni e citazioni. Questi erano i principali ordinamenti dei comuni del Vergante.
Non è del mio scopo l’istituire qui un esame particolare di questi Statuti; tuttavia, acciocché si possa viemeglio rilevarne l’importanza, non essendo mai stati, per quanto io sappia, pubblicati per le stampe, esporrò in breve gli argomenti di ciascuno di essi o il loro titolo voltato dal latino in italiano: e sarà questo così un mezzo di utile confronto cogli Statuti degli altri luoghi e colle presenti legislazioni.
1 Si possono vedere a questo proposito le Tavole oggimai notissime di Malaga e di Salpensa, e quelle scoperte di fresco spettanti alla
Colonia Giulia Genitiva di Spagna dottamente illustrate dal Mommsen nella
Effemeride epigrafica, anno II (1875) e da altri ancora dopo di lui.
2 Chi volesse avere una cognizione più estesa su questa materia potrebbe consultare fra le altre anche la
Storia dell’antica legislazione del Piemonte di Federico Sclopis.
3 Ho fatto cenno egualmente di questi Statuti anche sopra: qui gioverà notare che nella edizione fatta di essi l’anno 1605, dietro la copia, che fu pubblicata l’anno 1393 si ha l’estimo antico di tutte le terre del Lago Maggiore, che credo utile di riferire per le notizie che possono trarsi all’illustrazione de’ nostri luoghi. Si trova alla pagina 164 della citata edizione col titolo:
Aestimum antiquum terrarum totius Verbani lacus
Comunitas Locarni cum tota eius plebe et terra Asconae | floren | 27 |
Locus Brisaghi | 2 |
Comunitas Canobii cum tota eius plebe | 16 |
Terrae totius Vallis Intraschae | 21 |
Comunitas Lesiae et Vergantis | 14 |
Terra Travaliae cum eius plebe | 5 | 10 d. |
Comunitas Hisprae | 19 d. |
Locus de Monvalle | 9 d. |
Locus de Arolo | 3 |
Locus de Cellina | 4 |
Locus de Cerro et Ceresolo | 12 |
Locus Laveni | 16 |
Comunitas Margotii | 2 | 21 d. |
Comunitas Aronae | 5 |
Comunitas Angleriae cum eius plebe et Sexto | 5 | |
Da questo elenco si scorge che
Margozzo era ancora considerato come spettante al Lago Maggiore e che il luogo di
Brissago, tuttoché appartenente alla pieve di Canobio, formava una comunità a parte, mentre Ascona era censita con Locarno, e che sotto il nome di
tutta la valle Intrasca, si comprendeva anche
Pallanza. Quanto poi alla sponda opposta del Lago è notevole l’estimo della terra di Travaglia colla sua pieve, la quale certamente doveva allora estendersi da Maccagno superiore sino a Caldé, estremo limite di questa valle verso Laveno: la qual cosa, se non mi inganno, ci prova la misera sua condizione in quel tempo. Alla comunità di Angera poi spettava anche
Sesto, mentre
Ispra n’era separata; e un tutto da sé egualmente formavano i luoghi di
Monvalle, di Arolo, di Cellina, di Cerro con Ceresolo e di
Laveno.
4 Che il Vergante fosse costituito col titolo di
Signoria è chiaro dai suoi Statuti medesimi e da altri documenti ancora ad essi anteriori. Notiamo qui a maggiore intelligenza di quanto diremo in appresso, che col titolo di Signori s’intendevano quelle persone che avevano giurisdizione legittima proveniente immediatamente dall’impero o mediatamente da chi l’aveva dall’impero, come dall’arcivescovo o da qualche capitano o da altro cittadino privilegiato dall’impero stesso. Si accordava poi l’investitura di tali signorie, come anco dei feudi o benefizii con alcune solennità; come usando dell’asta o dello scettro, e innanzi ai Pari della loro corte (cosi si chiamavan gli altri vassalli di quei signori), se ne aveano: ovvero con un breve o instrumento rogato colle solite formalità, dal che sì scorge l’uso de’ Primati di portare lo scettro e di avere la propria curia o corte (vedi il Giulini, P. VII, pag. 325 e seg.).
5 Conviene notare che anche il Sassi, che tesse la serie cronologica degli Arcivescovi di Milano (T. 3. pag. 831 seg.) trova non poca difficoltà nell’assegnare l’anno della venuta in Milano di questo Arcivescovo. Ad ogni modo però volendosi sostenere l’approvazione fatta di questi Statuti dall’arcivescovo Antonio da Saluzzo, non è possibile di accettare la data del 1359; poiché in qualunque anno si voglia ammettere avvenuta la sua traslazione da Savona alla sede di Milano, questa sarà sempre di molti anni posteriore ad essa (si legga il Giulini,
Continuazione, P. II, pag. 277). Lasciando pertanto ad altri la conciliazione di queste date mi limiterò ad avvertire, che trovandosi, quanto al rimanente. amendue le copie pienamente tra loro conformi, piii sicura cosa è l’attenersi alla data del 1393, siccome quella, che è generalmente seguita da tutti.